La pietà per il lettore

Oggi scrivo un post ad alto tasso polemico, ma per una volta mi schiero dalla parte del lettore

Giusto per la cronaca: il punto di vista del lettore non è superfluo, anzi: è il lettore il destinatario ultimo di ogni parola scritta e - forse andrò un po' controcorrente, ma lo dico - quando gli scrittori affermano di scrivere solo per se stessi, beh, a mio parere mentono.
Scrivere per se stessi significa tenere un diario, più o meno. Qualcosa che non si prevede nemmeno in ipotesi remote che venga letto da altri. Ma non appena si prende un articolo, un manoscritto, una tesi di laurea, e si cerca un modo per pubblicare e divulgare… Ebbene, in quel momento la scrittura si consegna ad altri. E allora l'obiettivo finale è appagare chi leggerà.

Quindi, mi sorge insistente una domanda: PERCHÉ?

Perché veniamo afflitti da testi improbabili, raffazzonati, mal curati, non verosimili? Perché, per dirla in termini più tecnici, due degli elementi strutturali della narrativa, ovvero il viaggio dell'eroe e il patto con il lettore, sembrano essere diventati un optional?

Ok, non voglio inerpicarmi in discorsi tecnicistici. Però c'è una cosa che tiene insieme tutto, ed è il patto di verosimiglianza: quel concetto, meno astratto di ciò che si pensa, per cui chiunque, quando apre un libro, decide consapevolmente di abbandonare preconcetti e aspettative, e si affida alla storia. Cosa che può accadere soltanto se ci si immedesima con essa e con i personaggi che vi agiscono, o almeno uno di essi. Perché questo avvenga è necessario che ciò che leggiamo sia verosimile: qualcosa che, nello spazio e nel tempo della storia, nel mondo raccontato, ci convince a credere che possa esistere. Quindi non importa se si parla di Ufo e di invasioni ultrastellari, di supereroi o di mostri, di maghi, di fatine o di mele avvelenate: l'importante è che il lettore conceda fiducia al testo e si lasci trasportare.

Quando può accadere? Quando, dicevo, si instaura una immedesimazione: bisogna entrare nella mentalità del personaggio, soffrire, esultare, vivere le sue prove come stessero accadendo a noi. Vi ricordate La storia infinita? Quello era un romanzo in cui, tra le altre cose, il rapporto lettore-storia era ben evidenziato (anche troppo, forse!) ma l'idea dell'autore era proprio quella di creare un meta-romanzo, cioè una storia che parla di se stessa. 
Comunque. C'è un solo modo affinché noi lettori riusciamo a immedesimarci nelle vicende: una narrazione che preveda, nell'arco narrativo, una specie di cammino metaforico del personaggio, che parte da un punto e arriva a un altro, attraversando nel suo "viaggio" una serie di problematiche e di ostacoli cui dovrà far fronte (e non è detto che ci riesca, naturalmente). Si tratta del famoso "viaggio dell'eroe". Ora, ho una domanda: come ci si può immedesimare con un personaggio cui va sempre tutto bene, che non ha imprevisti, a cui non capita mai un intoppo? Una sfiga? Piccola piccola? Un litigio un giramento di scatole un licenziamento un mese del cavolo una perdita un fallimento un'ingiustizia un malessere un dolore una tristezza un amore finito una rottura una famiglia dell'accidenti una malattia un capo stronzo un collega infido un figlio scapestrato un marito fedifrago una moglie bugiarda una figlia ribelle un nonno oppressore una madre isterica una maestra alcolizzata un televisore rotto un portafoglio rubato…?
Come? Come può??? Potrei continuare all'infinito con il mio elenco, basterebbe osservare da vicino una giornata tipo, e poi quella di un amico, di un parente, eccetera.


Bene, e ora arrivo al punto: ho letto un libro, di recente, di cui qui ometto volutamente autore, titolo e casa editrice. La presentazione in seconda di copertina delineava un preciso problema contro cui il protagonista, nella vicenda, avrebbe dovuto scontrarsi, e ne annunciava un altro ancora, senza però definirlo. 
La mia aspettativa era semplice, ma chiara: leggerò quali saranno le difficoltà del personaggio inerenti a questo problema, quali strategie metterà in atto per venirne a capo (cioè: che tipo di personaggio sarà) ed emergerà un nuovo grave problema. Scoprirò come ne verrà fuori (se ne verrà fuori). 

Invece ho letto un lungo racconto in cui la presenza dell'autore era oltremodo invasiva (ovvero invece di caratterizzare il personaggio, i personaggi, li raccontava, senza limitarsi in lodi e complimenti che, da addetta ai lavori, vi comunico si tratta per lo più di un autocompiacimento autoriale); il personaggio in questione, a parte l'evento importante iniziale scatenante la vicenda, diventava praticamente un superuomo: primeggiava in qualsiasi attività (studi, sport, interessi), non era mai (mai, mai!) afflitto da problemi economici, o di relazione; si disperava solo nella teoria (nemmeno una scena, un dialogo, che mettesse il lettore in contatto con la sua sofferenza) per ragioni talmente futili da sembrare ridicole. Tutta una vita raccontata in quattro dialoghi finti e pagine su pagine di narrazione esterna, e poi, nell'ultimo capitolo, l'altro problema; quello, tra l'altro, che avrebbe avuto senso invece approfondire: si trattava di una questione attuale, forte, interessante e potenzialmente utile. 
Liquidato nel migliore dei modi e nel modo più indolore possibile, senza peraltro svelare l'esito di un processo che, invece, necessitava di essere raccontato nel dettaglio. Un finale imbarazzante. 
Una narrazione retorica, superficiale, volta alla soddisfazione personale dell'autore.

Mi sono irritata, sì. 
Perché io amo i libri, amo leggere, amo le storie interessanti. Non importa come vengono narrate, ma devono avere una struttura che tenga agganciato il lettore fino alla fine. E, quando si toccano temi sociali importanti, è necessaria la delicatezza ma anche la determinazione nel voler andare fino in fondo. È inutile lanciare il sasso e ritirare la mano: se l'autore non vuole esporsi, allora, come dicevo prima, è meglio che torni alla scrittura dei diari.
Posso essere esplicita esplicita? Sedici euro buttati via. 

"Se non si riesce, dico io, a rendere quel che si scrive al meglio delle nostre possibilità, allora che si scrive a fare? Alla fin fine, la soddisfazione di aver fatto del nostro meglio e la prova del nostro sforzo sono le uniche cose che ci possiamo portare appresso nella tomba."

(R. Carver, in Il mestiere di scrivere, Einaudi Super ET)

Ora, però, vengono le note davvero dolenti. Perché la mia critica, nella fattispecie, non è verso l'autore, ma è ferocemente rivolta a tutta la filiera. È un autogoal.

Critico l'autore: non ha avuto il coraggio di arrivare fino in fondo; a un certo punto è sembrato che si fosse stancato, che avesse fretta. L'autore aveva tra le mani un materiale interessante, valeva la pena esporsi, tuffarsi, arrivare al nocciolo della questione, schierarsi. Doveva ispirarsi, nella costruzione dei personaggi, agli esseri umani, non ai cartoni animati. 
Critico l'editor: davanti a un materiale dal potenziale tanto succulento un bravo editor pungola il suo autore, lo costringe, se necessario, a sviscerare, riscrivere, approfondire, tagliare, riorganizzare. Non si accontenta.
Critico la casa editrice: ha pubblicato un libro che non era pronto. Non è un romanzo, e non rispetta ciò che promette. Ho parlato di editor, perché conosco la casa editrice in questione (che NON è una casa editrice a pagamento) e so che segue tutto il percorso editoriale: editing, giri di bozze, grafica, redazione dei testi per la copertina, promozione e distribuzione. Non è una big, ma nel panorama delle piccole/medie edizioni si distingue per l'ottima reputazione. Dovere di un buon editore è però capacità nella scelta editoriale (quindi competenza nel valutare l'effettivo potenziale di un testo, non solo qualitativamente, ma anche commercialmente) e organico capace: laddove le figure che lavorano sul testo non sono ai massimi livelli, è necessario allora un passo indietro nella selezione, cioè accettare manoscritti che, già all'arrivo, si presentano coerenti, ben costruiti, ben argomentati, ben scritti. Altrimenti, mi spiace, ma si rischia di diventare stamperie travestite da case editrici.

Perdonatemi, ma stavolta non ce l'ho fatta. Sono stufa di leggere "male". Caldeggio da tempo un maggior avvicinamento alle case editrici indipendenti, anche piccole, anche micro, perché spesso offrono dei veri e propri gioielli. Voci nuove, storie accattivanti.
Ma, d'altra parte, non è il numero delle pubblicazioni che le fa grandi. È la qualità. Mentre, ultimamente, si moltiplicano i testi pubblicati, non sempre c'è coerenza, quasi fosse una gara a chi scova più talenti (ma quali talenti, diommio??), a chi esce con più titoli. 

Davanti a libri come questo, come tanti altri in cui sono incappata, mi cadono le braccia. 
Tra l'altro so per certo che questo romanzo è in lizza per una serie di riconoscimenti letterari, locali e non, e sono sicura che nel panorama dei "piccoli" otterrà dei successi, perché gioca dalla sua il fatto che, comunque, si presenta in un'edizione curata ed è scritto in un linguaggio pulito, ordinato, onesto, senza particolari refusi. 

Soltanto che non basta saper scrivere "bene" per essere scrittori. Ci vuole tecnica, studio, costanza e bla bla bla… Ma, soprattutto, ci vuole una certa scintilla

Tutto quanto sopra, naturalmente, è una mia opinione, magari soggettiva, magari non fondata. Ma siamo ancora in una repubblica, questo in fondo è il mio blog, e quindi per una volta rivendico il diritto all'invettiva!

Dai su, sentitevi liberi! Voi con chi/cosa ce l'avete oggi?
Baci,
L.

p.s. prima che qualcuno si lanci in teorie fallaci… La foto di questo mio post è del 2019, e il libro che avevo in mano non è quello "incriminato"! Si tratta anzi di un romanzo di Antonio Fusco, Alla fine del viaggio, edito da Giunti. Fa parte della serie del commissario Casabona che, se vi piacciono i polizieschi, vi invito a conoscere. 

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