Sopportare le attese...

Quando il mio dolce maritino mi ronza attorno e mi guarda con l'occhio a metà tra l'allarmato e il rassegnato, e tende a essere particolarmente premuroso, e cerca più del normale di farmi sorridere, significa che da un momento all'altro si aspetta che scoppi una bomba. Una bomba di malumore e nervosismo, con una spruzzatina di pessimismo cosmico. 

E che devo dire, ha ragione. Quando mi piglia quella specifica forma di malcontento non riesco a farci niente, tutto mi pare implodere e all'improvviso è come se il lavoro, gli sforzi di mesi e gli investimenti (di energia), perdessero di significato. 

Non so perché mi accade, ma ho scoperto che molto ha a che fare con il mio carattere e con la mia impulsività. E' che sono fatta così: sono passionale e mi butto a capofitto nelle imprese che mi entusiasmano, e poi, quando ho superato questa fase, rischio di perdere interesse in quello che faccio.

C'è stata un'evoluzione, però, di cui tra me e me vado molto fiera. Credo di aver risolto questo nodo (la perdita di interesse) e aver imparato a gestire passione e razionalità. L'ultimo mio lavoro (è durato due anni, mica cotica) è stato la dimostrazione di questo upgrade con me stessa: ho buttato molta, moltissima energia in una prima fase, quasi forsennata, e ho temuto poi di stancarmi di tutto quanto, di convincermi con poca umiltà che andava bene così. Arrivati a quel punto, di solito, in me si sveglia un meccanismo strano, che mi porta a essere poco autocritica - e quindi a confermare che tutto va bene così, che di meglio non posso fare - o eccessivamente autocritica - e quindi a dire a me stessa che per quando il risultato sia una ciofeca non sono in grado di migliorare il mio lavoro, di meglio non posso fare. Ovvero, seppur con dinamiche opposte, ottengo lo stesso risultato. 

Mi stufo, poi. Mi stufo fino ad avere la nausea. Dopo tanta fatica e dopo aver tenuto il cervello connesso sempre nello stesso punto per mesi (o per anni, come in questo caso), accade quasi sempre che ciò che ho fatto si distacca da me, non mi appartiene più; non mi comunica più niente. Vivo insomma il mio risultato, mediocre o eccellente che sia, come estraneo a me, come forma sterile di manifestazione di un momento, di un periodo, di uno stato d'animo che non c'è più, che è passato. E così, in qualche modo, anche quello che è nato da un momento svanito perde di significato. Non conta più, mi annoia, devo cercare altro. Quasi quasi lo rifiuto.

Ora, questo credo sia stato ciò che nell'insoddisfazione costante ha accompagnato il lavoro degli ultimi anni, la causa scatenante, immagino, di tanti esperimenti, tante esperienze, tanti tentativi più o meno riusciti. Poi, a maggio del 2018, mi è scattato qualcosa. Qualcosa di grosso, dentro. Ho deciso che era il momento giusto per ascoltarmi con onestà e iniziare a occuparmi soltanto di ciò che per me è sempre stata una necessità. Il punto però non è ciò che ho deciso di fare (avrei potuto scegliere di fare l'annodatrice di corde, o la lucidatrice di chicchi di caffè, poco importa), ma che ho deciso di farlo in maniera professionale. Il più possibile professionale, insomma; un passo alla volta, migliorando via via, partendo dall'idea sincera di essere solo l'ultima di un milione di persone che ogni giorno provano a impostare la mia stessa carriera, e seguendo, quasi come un mantra, il pensiero che c'è sempre da migliorare, e c'è sempre da imparare. 

Ecco, penso di averlo fatto. Per una volta, dopo una prima fase di passione, ne è seguita una di oggettività, di correzione e revisione, di controllo. E poi un'altra, daccapo, e un'altra ancora. E ancora, e ancora. E so che se ci mettessi gli occhi oggi troverei ancora da migliorare e modificare, perché ogni giorno cambia la maturità, cambiano le esperienze e le aspettative. D'altra parte, un giorno ho sentito di essere soddisfatta. Oggettivamente soddisfatta, per quanto possibile. E così ho fatto un'altra cosa nuova, mi sono affidata agli altri: ho chiesto aiuto, ho chiesto consigli, ho chiesto pareri, ho chiesto difetti. Ho chiesto a qualcuno degli interventi tecnici, a qualcun altro un feedback di pancia, di emozione. Ho ascoltato alcune critiche, ne ho valutate altre. Ho deciso di non ascoltare alcuni consigli perché, dopo aver lasciato sedimentare i pensieri, le parole, tornando al mio lavoro ho capito di aver operato delle scelte, che mi sembravano pertinenti con ciò che intendevo fare, che erano coerenti col percorso che volevo tracciare. Ho sbagliato? Non lo so. Si trattava di critiche corrette, costruttive? Non so nemmeno quello, eppure spesso le ho ascoltate, sono tornata sui miei passi.


Ora. 
Ora sono nel pieno di un periodo di attesa. Ferma, cercando di assaporare i giorni che passano. Una tartaruga che muove la testolina a destra e a sinistra.
E' il momento di lasciar sedimentare, ancora di più. Di stare ben lontana da tutto quel lavoro, dall'energia che è costato, da ciò che ne è venuto fuori. Mi sono data un timing di sei-otto mesi, e sono ormai a metà (solo?? aiuto....!), e ho imposto a me stessa di non azzardarmi a lavorarci ancora. 
E' il momento di mille domande, anche... Ma avrò fatto bene a scegliere questa via, invece di quest'altra? E se in quell'occasione, in quel punto preciso, avessi scelto quell'alternativa? Uh, quante, quante domande.
Ed è anche il momento dei confronti, naturalmente: continuo a rimanere impastoiata in siti, blog, pagine, video, estratti, link, proposte commerciali, libri, che altro non fanno che parlare di ciò a cui non vorrei pensare. E a volte ho tra le mani qualcosa che mi emoziona, mi chiedo: ma io ce l'avrò fatta, a creare una cosa così intensa? Oppure guardo con scetticismo al lavoro degli altri, a chi riesce ed è riuscito, e mi dico che in ciò che ho fatto io non c'è niente di meno o di peggiore e che allora ci deve essere posto anche per me e.... E mi fermo, potrei andare avanti ORE!

La verità.
La verità è che non so. 
Ho portato a termine un lavoro. Ho fatto del mio meglio. Mi ci sono dedicata anima e corpo (davvero) per due anni, che è solo un tempo, non significa niente, non è né tanto né poco. E' un metro canonicamente definito, ma privo di implicazioni. Io del mio lavoro sono soddisfatta, ma sono certa che potrà sempre essere migliorato; e poteva essere peggiore; e diverso; e un'altra cosa, assolutamente.
La verità è che ho capito che adesso devo solo aspettare
Adesso è il momento di una fase diversa, in cui non ho più il potere di onnipotenza, perché ho detto a me stessa che avevo finito. STOP! 
E' il momento di lasciar decantare, DI NON FARE NULLA. 

Ebbene, odio non fare nulla. Divento isterica.
Avevo steso un programma ben definito per occupare l'attesa, di cose da fare e approfondire, situazioni da organizzare e sistemare, ritmi da prendere.... NIENTE! Niente. Non è roba per me. 
Anzi, diciamo che non è roba per me a volte, in certi giorni o in certe settimane, quando l'attesa si fa più snervante. Poi anche questi momenti se ne vanno, e allora tutto scorre con maggior tranquillità. 

E che fare nel frattempo? Intanto, defaticare. Ho accantonato per un po' prossimi progetti, anche se ho delle idee che mi ronzano nella testa da un po', che voglio approfondire (e dopo qualche mese di fermo, credo che si si stia avvicinando il momento di mettere mano a queste idee). Poi, che dire: studio. Cerco di non fermarmi, di tenermi aggiornata, di prendere appunti, di allenarmi. Questo di certo aiuta a tenere sveglia la mente.


E infine, spostare l'attenzione. 
Il mio modo preferito per pensare ad altro è leggere. Leggere mi aiuta a concentrare la mente su nuove storie, a seguire il filo della fantasia, a immaginare. E poi ho delle pile di letture da smaltire che non si esauriscono mai, anche se ormai mi è chiaro che le pile non si esauriscono perché continuo a reintegrare ciò che tolgo con qualcos'altro, non perché sono pigra e non leggo...



A proposito di pigrizia, un'ultima "strategia" che il bel tempo di questo novembre mi ha aiutato ad avvicinare, con molta timidezza, è la decisione di passeggiare con un po' di costanza. Non sono una sportiva, ormai mi conoscete; e non ho quasi mai voglia di prendere e uscire senza meta, solo per passeggiare (un'altra di quelle cose che mi ha sempre dato la sensazione di perdere del tempo)... Ma ho deciso di provare a cambiare il mio modo di pensare e di approcciarmi alle cose, e quindi di ribaltare il mio modo di vedere le cose - soprattutto quando sono cosciente che è sbagliato. Così, non più tempo perso, ma tempo occupato a rigenerare la mente, a staccare da casa, figli, eccetera.

E infine un trucco, forse il più efficace, per ingannare l'attesa e non innervosirmi: se possibile, evito di parlare di Covid e di Governo, di Natale, parenti numerati e regioni colorate.

E da voi, tutto bene?
Baci,
L.


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